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Della maledetta voglia di avere ragione

Nel panorama degli atteggiamenti umanamente più fastidiosi, non penso si debba automaticamente dar più peso a quelli relativi alle esternazioni dovute a stupidità o a ignoranza.
Poiché come ben sappiamo la malvagità, la cattiveria, la crudeltà si celano spesso negli animi dei più istruiti, intelligenti e capaci.
La brama di potere e la cieca affermazione a discapito dell’altro, in nome dei propri interessi personali, riempiono i libri di storia da quando esistono e tuttora il quotidiano di molto mondo.
Ahinoi, tutto ciò non ci abbandonerà da un giorno all’altro.
Ma ciò che oggi si sta palesando come insopportabile è qualcosa che ci riguarda individualmente: quella maledetta voglia di aver ragione, quel desiderio irrefrenabile di sfamare la pancia, di assecondarla, di darle conferme.
Nessuno può considerarsi immune da tale virus; anche chi si ritiene moralmente ineccepibile potrebbe avere delle défaillances e difficoltà a gestire le proprie emozioni.
Penso sia un fattore di pertinenza dell’ampio ventaglio di debolezze umane.
Non serve spingersi a ricordare cosa succede da un momento all’altro in Un giorno di ordinaria follia, diretto da Joel Schumacher; anche perché purtroppo è la cronaca reale, e non il cinema, a dover occuparsi dell’inventario dei più tragici scatti di rabbia incontrollata.
La mia riflessione si riferisce, piuttosto, al sempre più progressivo impoverimento nella dialettica del confronto o dello scontro.
In particolare l’istintiva smania per veder certificata la propria soluzione, da sventolare poi sotto il naso dei rivali di uno pseudoragionamento.
Quella maledetta voglia di poter dire avevo ragione io, io lo dicevo, hai visto che alla fine, te l’ho sempre detto; a cui segue quell’altrettanto maledetta voglia di irridere verbalmente il sostenitore di altro.
Non veder l’ora di avere i fatti a disposizione e poter brindare al narcisistico soddisfacimento del proprio ego, pensando di averla fatta franca, di aver fatto meglio, di essere stati più scaltri; salvo poi non riuscire ad ammettere di essersi sbagliati, di averci ripensato o anche semplicemente di aver esagerato anche se dalla parte della ragione.
Come gli arroganti coniugi Gummer di Tremors, diretto da Ron Underwood, sicuri di poter far fronte a tutto con il proprio bunker, le scorte di armi e tutto ciò che dovranno mollare per l’imprevedibile arrivo di giganteschi vermoni dalle viscere del sottosuolo.
Nessuno può dirsi al sicuro da catastrofi naturali o di altro tipo, nessuno.
Ma spesso siamo circondati e minacciati da quella maledetta voglia di mettersi continuamente le mani in tasca e ritrovarci la misera e illusoria verità che gioca a nascondino con un sano, ragionato, condiviso dubbio.
Un irrefrenabile impulso di sopraffazione nelle interpretazioni degli eventi.
Sembrano sempre più cosa rara lo sguardo attento, l’ascolto e le parole pesate che non vengano intenzionalmente travisate.
Respirare con calma, indugiare, temporeggiare. Non sputare slogan, sentenze, allusioni, malizie, accuse. In sintesi, non assecondare la facilità del click.
Non si discute molto, piuttosto si escono le proprie minuscole e immaginarie ricette del vero falso; lo si fa soprattutto laddove la discussione, per modalità e dinamiche intrinseche ai contesti tecnologici che la ospitano, è praticamente impossibile.
Chissà da quanto tempo prima di questa pandemia tutto ciò bolliva nel pentolone delle miserie umane, consacrato dalla predominanza di un perverso sistema di sviluppo (presunto), fondato su larga scala sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Adesso non può che uscire tutto fuori.
Siamo forse minacciati dal più grande attacco alla stessa basica capacità di pensiero, della sua gestione, di una pura ricerca e condivisione delle soluzioni alle difficoltà.
La sola possibilità di interrogarsi sul senso delle cose e degli eventi diventa impresa faticosa, sempre più démodé. La comunicazione istantanea ci ha inglobati come il più viscido dei blob, il fluido che uccide.
Ma questo mostro lo possiamo guardare in faccia, se troviamo il coraggio.
Pensiamoci quando discutiamo con qualcuno di una stronzata o di altro e perdiamo la lucidità, non restiamo sul pezzo, perché incapaci di gestire il flusso emotivo e la tenuta dei nervi.
Il conflitto non va ovviamente represso. Ma direi che non siamo più capaci di litigare.
Dei cosiddetti vertici, delle dirigenze, degli uomini di potere non mi esprimo per evitare che questo post diventi chilometrico e che paradossalmente si trasformi in uno scritto di pancia, piuttosto che sulla pancia.
Le innumerevoli contraddizioni e incongruenze soprattutto sulla gestione comunicativa delle decisioni fomentano l’accapigliarsi social e probabilmente lo hanno come effetto voluto: ci si dimentica delle (ir)responsabilità e delle ipocrisie istituzionali.
Ma al di la della scellerate scelte politiche, forse ci siamo abituati troppo alla comodità di delegare, al si salvi chi può o ad aspettare con i popcorn che le macerie crollino del tutto.
Ammetto che se avessi imparato uno strumento musicale avrei subito il fascino di emulare uno dei componenti dell’orchestra del Titanic mentre affonda. Suoniamo insieme, non ci pensiamo.
Però la posta in palio mi pare sia prettamente antropologica: l’Homo abbrutitus lo chiamerei quello in questione.
E allora piuttosto che continuare ad andare avanti per inerzia, rassegnati alla corsa o al tuffo disincantato sul burrone del precipizio, fermarsi.
Restare sulla soglia e provare a rinnovarsi lo spirito, rispolverando una minima tendenza alla riflessione.
Ridimensionarsi, con umiltà. Coltivare la sapienza. Non per forza la fantomatica speranza.
Perché no, addirittura immaginare di darsi una mano.Letteralmente.
Come fanno Tyler Durden e Marla Singer davanti al reset della nostra civiltà, nel finale di quel Fight Club diretto da David Fincher.
Solo un’auspicabile attitudine alla solidarietà, al mutuo aiuto e un investimento individuale sulla polverizzata sanità del linguaggio (partendo innanzitutto dai silenzi) possono invertire l’inquietante rotta dell’Homo abbrutitus che alberga in ognuno di noi.
Si saranno odiati anche quei gran saggi dei filosofi di tutte le epoche, ma almeno passavano la vita a studiare, leggere, scrivere e
a fare le pulizie, o quantomeno a provarci, nella mente assediata dalle emozioni e da quella maledetta voglia di aver ragione.