Oggi non lavoro
Per il numero di maggio avrei voluto scrivere qualcosa sull’onnipresente mondo del lavoro.
E metterci dentro tutto. Chi lavora, chi parla di lavoro, chi sfrutta e chi viene sfruttato. Citare qualcuno che ha scritto contro il lavoro e stendere un elogio a chi ha rifiutato l’imposizione del lavoro. Avrei voluto
scrivere qualcosa sui morti di lavoro e su chi ci fa le campagne elettorali. Avrei voluto scrivere sull’ipocrisia e sulla sfacciataggine dei padroni che ristrutturano aziende, locali o che si comprano una macchina nuova,
grande e grossa, o l’ennesima proprietà, sulle spalle di chi lavora. Avrei voluto parlare di economia, di politica, di politica economica, di economia politica. Avrei voluto intervistare gente di tutto il mondo, girare un documentario e unire per abbozzare una teoria sociologica per una società senza padroni e quindi senza guerra. Vorrei scrivere di cosi tante cose che potrei farci una rubrica con dodici puntate, più la tredicesima e le festività non godute, primo maggio compreso. Ma non mi ritengo ancora all’altezza, perché la pancia non
riesce a farsi da parte per lasciare spazio alla testa, persino in un giorno di festa. E anche perché la testa, se ci pensa, fomenta la pancia e così all’infinito. In questi casi mi soccorre la poesia. E in questo caso la poesia
soccorre La Panchina.
PRIMO GIORNO DI LAVORO
“Pane, marmellata, una banana
e il caffè.
E uscivamo come leoni da una gabbia”.
Disse mio padre, a proposito della colazione
che precedeva il turno al cantiere.
Latte, marmellata, caffè
e una sigaretta
scelsi io, prima di dirigermi verso il deposito.
E proprio come un leone da una gabbia
lasciai casa col passo convinto
e con la testa alta.
Dopo il turno pomeridiano rientrai
stanco
come un leone a digiuno
ma non affamato
che ritorna con la strana sensazione
di non aver predato nient’altro
che una parte di se stesso.
DISCORSI DA BAR
I bar parlano.
I camerieri raccontano.
“In un ristorante mi chiamavano Ou!”
“Sono l’una di notte.
Dalle quattro non mi fermo.
Non c’è tregua.”
E intanto diciotto persone si siedono
diciotto persone sono diciotto ordinazioni.
Forse diciotto bicchieri.
Tre quattro viaggi solo per portarli.
Tre quattro viaggi solo per riportarli.
La danza del vassoio.
Pezze sporche sui tavoli.
Sporche, come le coscienze dei capi
che se ne fottono.
Il chiacchiericcio dei consumatori.
La pochezza dei discorsi di circostanza.
Il meteo, gli animali.
L’attualità, lo sport.
Fateveli a casa vostra
che c’è gente che non si ferma
dalle quattro, e sono l’una.
Posted: Maggio 11th, 2024 under Scritti altri.